Il poeta Raúl Zurita, durante le proteste in Cile. Foto da Twitter.
*******************************************
Ho tradotto un pezzo apparso su “La Razón”. La situazione è drammatica. Polizia per le strade, torture, uccisioni, stupri e violenze di ogni genere per opporsi alla gente che sta manifestando. L’orrore riaffiora in un Cile che pare non aver memoria di quello già sofferto durante il regime di Pinochet.
Come allora, anche questa volta non li lasceremo soli. Ma dovremo agire prima che la catastrofe si compia, prima che l’orrore colpisca ancora.
La poesia, ancora una volta, dimostra di avere un compito insostituibile: ricondurre all’Umano gli Umani.
In questo sono a fianco di Raúl Zurita, grandissimo poeta ed amico, che da solo scende in strada con tutta la potenza della sua fragilità.
Di Raúl, in novembre, appariranno in Italia, per l’editore Valigie Rosse di Firenze, quattro meravigliosi poemi da me tradotti (link qui) con la supervisione e l’introduzione di Lorenzo Mari. Dunque, a presto.
Nel frattempo, Raúl, stiamo al tuo fianco. Con quell’amore che è la nostra forza indistruttibile. Il Cile non è solo.
*******************************************
Articolo di Julio Trujilloapparso su “La Razón” del 28 ottobre 2019
Un uomo per la strada solleva la bandiera del Cile. È tutti e nessuno, perché i poeti sono tutti e nessuno. È Raúl Zurita. Non è un vandalo né un criminale, non è stato convinto da nessuno o da niente: manifesta spontaneamente come spontanea è la combustione di gente che trabocca per le strade di Santiago.
L’immagine, che è muta, è eloquente e fragorosa: esprime stanchezza e disagio, affaticamento, ma anche un’enorme dignità e una bellezza commovente. È una persona, né più né meno, fragile nell’aspetto e potente in ciò che dice senza dirlo. È una crisi, e la buona poesia è sempre in crisi, è resistenza, e le poesie vengono al mondo per resistere. È l’ascesa della voce in libertà e la speranza che cada un dogma, un modello che ci condanna alla disuguaglianza.
Bisogna vedere lo spasmo sul volto del poeta e ricordare le sue parole: “Perché alla fine, ciò che emoziona di un uomo non sono i suoi sentimenti ma il suo rictus, quei movimenti quasi impercettibili che a poco a poco si vanno stampando agli angoli delle labbra, sulle palpebre o sul semplice contrarsi delle sopracciglia, e che non si rassegnano a morire con le nostre facce che muoiono”. No, non si rassegnano a morire con le nostre facce, con facce come la sua che è stata la tela di poesie radicali, scritte da lui stesso con ammoniaca e ferro rovente (“volevo esprimere l’impotenza di fronte alla realtà e il bisogno di dire senza parole”, ha spiegato). Zurita ha scritto anche nel cielo (lo ha fatto sempre) e sul volto del deserto ha plasmato queste quattro parole: “NI PENA NI MIEDO” (né dolore né paura). Oggi la sua figura dice tutto senza parole, senza dolore e senza paura. E quello che dice è che c’è un profondo malessere tra la gente, che non si deve produrre ricchezza a qualsiasi prezzo, che non c’è un senso di appartenenza tra i giovani, che la concentrazione dei patrimoni è oscena, che si deve reinventare l’idea di comunità, diversa e solidale, che la élite abita in un altro pianeta e che i governi non comunicano con la gente. Dice disuguaglianza, dice assenza di mobilità sociale. Dice che il nostro modello economico si sta distruggendo da solo. Zurita ne sa qualcosa di quei punti di svolta. La sua opera è un movimento che va dal Purgatorio all’Antiparadiso, da lì alla Vita Nova, e che sbocca in Zurita, che è tutti ed è nessuno. È un’opera scritta con amore, amore rudimentale, amore per il Cile e per i suoi simili: “La furia dell’amore che colpisce le pietre, quella che ha scolpito le cordigliere, il mare e il desiderio umano”. Il suo sguardo è a tutto tondo, dai grandi tratti, “come se nei paesaggi fosse contenuta una redenzione infinitamente più vasta dell’umano, un conforto, una speranza tanto travolgente ed enorme da poter appartenere solo ai cataclismi o al delirio”. Questo è l’uomo che è sceso in strada come tutti, a protestare, a dire basta. Questo è l’uomo che ha scritto la poesia “Cari potenti, cari umili”. Sono otto versi che parlano per noi:
Quando tutto sarà finito forse resteranno
queste alghe
sopravviveranno alle mareggiate, ai secoli
e ai sogni.
Come perdureranno ai potenti
ai duri di cuore
e agli uomini che ci umiliano
queste poesie d’amore per tutte le cose.
*******************************************
Metto qui anche il link dei pezzo appena composto ed eseguito dai Noise Of Trouble (miei compagni di strada e fratelli sempre presenti dove c’è da resistere).
Perché sto con i pastori.
Non ci sarebbe tanto da spiegare. Sono sardo, provengo da una zona del Logudoro, il Monte Acuto, ad economia agro-pastorale. Sono per parte di madre di famiglia di allevatori. La grande maggioranza dei miei amici, dei miei compagni di scuola, dei miei parenti, viene da generazioni di allevatori e pastori. Io sono cresciuto lì e ho sempre visto i pastori intorno a me. I pastori nei millenni hanno creato una grande cultura in cui sono cresciuto e mi sono formato.
In più, se questo non bastasse, i pastori hanno inventato la poesia, di cui mi nutro, e me l’hanno insegnata.
Infine: io sto con i pastori perché le loro rivendicazioni sono giuste. E non sto qui a commentarle.
Voglio invece parlare di un altro episodio, un post su Fb di un amico, Leonardo Solinas del gruppo rap di Porto Torres Stranos Elementos con cui ho condiviso momenti belli e importanti e che ringrazio per avermi invitato a partecipare ai loro ultimi due dischi. (Qui il mio percorso con loro)
il post di Leonardo, dove è evidente che anche lui sta con i pastori, ha suscitato diverse reazioni ed è pieno di amarezza e giuste osservazioni che condivido. Gli ho voluto rispondere con altre ragioni. lo riporto qui:
Io non sto con i Pastori o meglio io non sto con quei pastori che qualche anno fa durante le manifestazione del MPS a Cagliari indossavano la maglia nera con la scritta Boia chi molla, o con l’immagine del duce, non sto con quei pastori che hanno continuato a votare la merda della merda in cambio delle briciole, con quelli che nascondevano l’inquinamento dei poligoni militari perchè non avrebbero corso il rischio di non vendere più nulla ma nel mentre avvelenavano altr* sard*, con quelli che nutrono le loro pecore con mangimi pieni di ogni porcheria provenienti da chissà dove, non sto con quei pastori che anche oggi si siedono al tavolo di chi li ha ridotti in miseria barattando la dignità, con quei pastori che ai bar tra una staffa e l’altra si riempiono la bocca di n*gr* di merda scaricando la colpa dei loro fallimenti a chi sta messo peggio, non sto con quelli che hanno fatto ogni tipo di manfrina pur di fregare soldi alla comunità europea, ma soprattutto non sto con quei pastori quelli leali quelli che amano il loro lavoro fatto di sacrificio e di sabati e domeniche a lavoro che non prendono le distanze da questi personaggi che continuano a distruggere quel poco di buono che questa terra regala.
Mi spiace ma io non seguo le pecore che oggi nei social riempiono di hastag la loro home in nome di una solidarietà ipocrita, ho imparato nella vita a prendere una posizione e di mantenerla anche a costo di diventare un rompicoglioni, ma sono anche pronto a schierarmi, a scendere nuovamente in piazza a patto che trovino il coraggio di mandare a cagare le mele marce che impediscono che una lotta di categoria si trasformi in una lotta di classe e di un popolo.
e qui la mia risposta:
Caro Leonardo, voglio raccontarti un episodio che il tuo post mi ha fortemente richiamato.
Alla fine degli anni novanta, oltre vent’anni fa, fui invitato in uno spazio del Veneto, a Treviso, per una lettura e un incontro col pubblico. La sala era piena, e, scoprii dopo, affollata soprattutto da operai. Dopo la lettura dei miei testi, venne il momento del dialogo con quel pubblico vivace e partecipativo. Tutto molto bene fino a quando il discorso non si spostò sul tema del rapporto della cultura con la “classe operaia”, e, nello specifico, del lavoro da poeta e gli operai.
In quegli anni, già dal 1992, avevo scelto di abbandonare ogni altro mestiere precedente. Prima il teatro, poi un breve periodo di cinema, poi le direzioni artistiche anche internazionali, e così via… tutte cose che mi rendevano sufficientemente e, nonostante comportassero grandi sacrifici, mi facevano vivere di cultura.
Avevo deciso di dedicarmi esclusivamente alla scrittura. Una scelta radicale che mi costava molto sia dal punto di vista economico che fisico. Venivo da un periodo molto precario, ero stato senza casa, vivendo ospite o in squats per tre o quattro anni, appoggiandomi a situazioni di grande instabilità.
Quando feci quella scelta, non avevo denaro e mi sostentavo facendo lavori precari, quasi tutti a nero, di basso livello e davvero molto faticosi. Ma ero giovane e nel pieno delle forze. Affrontavo il mio destino con energia e positività. Lavoravo tutto il giorno fisicamente come una bestia, i lavori più infami e più pesanti, e poi, la sera, tornavo a casa a leggere, studiare, scrivere. Facevo due lavori: quello intellettuale e quello manuale senza farmi problemi. E li facevo a tempo pieno ambedue.
Ma torniamo all’incontro in Veneto. Ad un certo punto del dibattito, spinto da tante incalzanti insistenze, mi lasciai andare ad un’affermazione che suscitò quasi una rivolta. Con giovanile e infiammata incoscienza dissi che, sì… vivevo le mie giornate in mezzo agli operai, ma, tranne pochissime eccezioni, avevo poco a che spartire con la maggior parte di loro. Infatti, al contrario dei miei compagni di lavoro, non passavo i miei pomeriggi al bar a parlare di calcio, di macchine, di mangiate e bevute, e nemmeno mi fermavo con loro in branco a commentare i culi delle donne che passavano. Affermai che con loro avevo poco da spartire perché i più erano omofobi, sessisti, educavano male i loro figli dando pessimi esempi riguardo ai bisogni spirituali e intellettuali, trattavano con volgarità e arroganza le donne a partire dalle loro stesse mogli, e, se avevano due soldi in più, non compravano un libro: investivano nella macchina nuova o nel televisore più grande.
Insomma: non m’identificavo in nessun aspetto del loro modello di vita. Terminai con una frase epica:
”Lotto, continuerò a lottare. Ci sono e ci sarò. Saprò sempre da che parte stare. Ma per favore non fatemeli conoscere. Non voglio avere niente a che fare con quel mondo, altrimenti smetterò anche di lottare.”
Scoppiò un tumulto. Fui aggredito verbalmente e mi giocai all’istante le simpatie dell’uditorio.
Ma stavo annusando i tempi. Poco dopo, molti di quelli che mi aggredivano già votavano la Lega Nord, parlavano degli immigrati e dei “terroni” con un disprezzo non più celato, e finalmente si palesavano quelle tensioni che in loro erano state vigliaccamente soffocate. E non erano per niente diversi dai metalmeccanici per i quali ci mobilitavamo tutti, che in Sicilia, a Termini Imerese, intanto votavano Berlusconi con tensione unanime aspettando da lui chissà quale miracolo.
Insomma: oggi sto con i pastori come ieri stavo certamente con gli operai. E probabilmente quella volta in Veneto mi sbagliavo a parlare come ho fatto.
Ho capito che dobbiamo comunque portare avanti le tensioni, le idee, il pensiero, l’etica, la lotta.
Per questo continuiamo a resistere. In questo siamo partigiani.
Ti abbraccio fraternamente e ti ringrazio.
Alberto
infine, io sto con i pastori nonostante …
In questi giorni terribili per la Palestina esce un mio nuovo libretto – a Gaza – edito da HEKET in una preziosa tiratura limitata.
Lo presento oggi, 15 aprile 2018, alle 20,30 insieme a Valerio Grutt e Matteo Totaro al Binario69 di Bologna.
Subito dopo, alle 21 circa, sarò in concerto nel duo con Marco Colonna, l’ispiratore del testo nel 2014 (che si può sentire a questo link).
Ecco l’evento con tutte le indicazioni:
https://www.facebook.com/events/231578720742167/
Caro Marco,
l’altra sera, alla presentazione dell’utilissimo libro “Compagno T.” di Cristiano Sabino, mi hai fatto una domanda diretta che mi ha colto di sorpresa. Eravamo alla fine di un interessante e prolungato dibattito (un’ora oltre il tempo previsto). I presenti, numerosi e ancora attenti, erano già stanchi. Io, lì solo per ascoltare, non mi aspettavo di essere coinvolto nella discussione.
La tua questione, per me molto importante, era: “Tu pensi che la lingua sarda debba essere unificata?”.
Avrei voluto rispondere argomentando le mie idee in proposito, ma tutti i pensieri che mi assalivano la mente sarebbero stati troppo complessi e difficili da condensare. Ho farfugliato disordinatamente alcune cose eliminandole rapidamente perché sapevo di non poterle spiegare in quel momento, ed ammucchiandole in una risposta che alla fine poteva essere condensata anche soltanto in un semplice: “Sì”.
Ebbene, la mia insoddisfazione successiva, quella che mi spinge a scriverti ora, deriva dal non aver potuto argomentare né distinguere gli elementi complessi che nel profondo compongono la mia risposta.
Dato che le parole hanno sempre un peso e non bisogna mai sprecarle, eccomi adesso a cercare di specificarle meglio.
Per non creare malintesi, dichiaro una volta per tutte che parlo dal mio punto di vista, cito me stesso, ma non mi sento né ‘speciale’ né ‘migliore’. Ciò che dico non è singolare, sono alcune premesse, ovvietà ugualmente riferibili a chi è nato in Sardegna nei miei stessi anni.
-
La lingua è il mio principale strumento di lavoro e del mio percorso di vita. E non solo del mio, essendo l’arnese che esprime spirito, pensiero, idea, socialità.
-
Ambedue, come ben sai, veniamo da un popolo le cui lingue (tre principali, più le due minoritarie) sono state impedite, vietate, umiliate e soppresse dalla colonizzazione italiana e dalla conseguente auto-colonizzazione sarda.
-
Una fortunata peculiarità familiare mi ha formato a tutte le lingue sarde del centro-nord: le due varianti del Logudorese, il Turritano di Sassari, il catalano. Ho poi acquisito dimestichezza col Campidanese grazie alle mie successive scelte di vita.
-
Questa grande fortuna mi ha ‘allenato’ ad aprire le orecchie e la mente verso ogni pronuncia, ogni lingua, ogni suono, ogni ritmo del linguaggio, e mi ha slanciato verso un’attitudine, prima subliminale poi consapevole, orientata verso le differenze, le singolarità, le alterità. Una volta ho scritto: “Se avessi una patria, risiederebbe nella mia lingua. Ma non posso nemmeno pensare che, sebbene io possieda la variante più completa e letteraria di tutta la Sardegna, questa possa essere la lingua di tutti i Sardi. Amo le sfumature e le differenze, mi diverte ascoltare le complessità. Le lingue, le letterature, mi piacciono tutte. Penso che ogni poeta, ogni scrittore, porti in sé la propria lingua, ne scelga le forme, ne ricrei sempre l’uso che, a volte, risulta totalmente inedito”.
E qui vengo alla questione della Lingua Unificata. Certo, mi piacerebbe che ci fosse una comune e forte capacità comunicativa di un intero popolo. Per questo alla tua domanda ho risposto con un fragilissimo e tremante “Sì”. Ma sono anche consapevole che questo costituirebbe un arretramento dell’abilità espressiva dello stesso popolo.
Ogni “normalizzazione” è, per sua stessa definizione, violenta e impositiva proprio perché si basa su un concetto di normalità. La letteratura e la poesia non nascono mai da “lingue normalizzate”. Non ne conosco un solo esempio in tutto il mondo. Semmai avviene il contrario. E di questo sì, ogni letteratura ne è testimone.
Ciò che somiglia più alla normalità, alla stabilità della forma, è la sovrastruttura organizzativa che richiama il potere che la esprime. È come l’istinto al possesso, una sorta di “paresi dello spirito che ha come effetto l’immiserimento dello sguardo confinato in un vortice di opaca circolarità”. Una visione pietrificata e inerte.
In una lingua normalizzata vedo soprattutto questo pericolo: l’annichilimento delle sfumature e delle ricchezze espressive.
So che stiamo trattando contemporaneamente di due contesti diversi: in un caso c’è il disperato recupero di una ricchezza che negli ultimi cinquant’anni è stata passivamente dilapidata, nell’altro caso è invece una condizione in cui la padronanza del mezzo linguistico e delle sue sfumature permette l’agilità dell’immaginario.
Ebbene: il mio sì, così gracile e incerto, è riferito tutto al primo caso. Soffro quanto te a veder dispersa e calpestata una lingua, qualsiasi essa sia, figurati la mia tanto amata! Ma non sarei tranquillo se non ti esprimessi anche le perplessità. Innanzitutto tecniche. Ciò che finora “si è stabilito” sulla lingua non mi rappresenta abbastanza, non mi ci ritrovo. La sua artificiosità forzata conduce all’inespressività che vedo sempre più formulata in una forzosa traduzione delle forme italiane. E questo mi raggela. La mia ricchissima lingua è invece quella dei poeti pattadesi e ozieresi, del dizionario di Pedru Casu di Berchidda, degli appunti del dottor Amadu così amorevolmente integrati anche da mio padre.
Si stabiliscano pure quelle antipatiche forme, quell’uso dei verbi ausiliari sconnesso e indeciso, quell’abolizione forzosa delle doppie anche nei casi in cui l’orecchio (il vero unico proprietario dello strumento linguistico) mi dice il contrario. Una simile pronuncia delle parole mi risulta, come avrebbe detto mia nonna, istroppiàda, e, aggiungo io, sembra fatta da unu barrifaladu. E si usi l’italiano ch al posto dell’ispanico qui o que o del più internazionale k. Quelle stitiche regole daranno sicurezza alla burocrazia, ma la loro semplice esistenza non produrrà mai letteratura. Questa, come è ovvio, è da sempre affidata a chi scrive, canta, pensa, conosce i ritmi e ne inventa dei nuovi. Chi sa anche trasgredire le regole, insomma.
Ed io, che trasgredisco, ne ho fatto stile di vita, impegno etico. Sono un poeta incivile ed amorale. Sulla questione non faccio qui alcun discorso. In privato o in altra situazione mi piacerà riparlarne con te, che stimo e a cui voglio bene.
Chiudo citando alcuni passaggi da un mio libretto che tu conosci:
“Le isole non hanno deciso il mare in cui emergere né la qualità dei comportamenti dei propri abitanti. Possono soltanto suggerirli con la loro stessa conformazione. E testimoniare le tracce ereditate. Molte si perderanno o saranno sempre più sfumate e invisibili se non ci sarà chi vuole preservarle. Ecco: è come se ad ognuno nascendo venisse affidato in maniera casuale il compito di incarnare un’isola abbandonata in un luogo o nell’altro. La popoliamo più o meno densamente con pensieri, contatti, approcci, conoscenze, costruzioni… Domani tutto questo, noi compresi, sarà un pallido ricordo in chi verrà al nostro posto. Fino a scomparire. A meno che qualcuno non si prenda la briga di mantenere efficiente l’approdo e abitarne gli edifici che potrebbero resistere. Gli antichi costruivano con la pietra. Oggi si consuma in fretta e si costruisce male, con edifici fragili ed effimeri. In poco tempo non resta quasi niente. Ma si potrebbe edificare su chi ci ha preceduti riutilizzando gli stessi materiali. La memoria è spazio attivo che ogni volontà mantiene intorno a se stessa. Non ha a che fare col tempo, ma con i materiali con cui si edifica. Chi la conserva opera un restauro costante. E se da un lato qualcosa si sgretola, dall’altro nascono nuovi elementi”.
“La lingua è il mezzo espressivo che abbiamo in dotazione. Io la uso come strumento: cerco di farla incontrare col ritmo per riconoscere ogni volta dove il suono si perfeziona. Inoltre non mi sento vincolato a nessuna forma linguistica dal momento che la mia lingua materna, il sardo, mi è stata impedita”.
“Se scrivo in francese significa che ho pensato in francese. Così anche per le altre lingue. Il suono ed il ritmo devono già nascere nella lingua in cui scrivo. Anzi, a volte ho problemi a riprodurli nella successiva traduzione italiana. Scrivere in una lingua è come suonare uno strumento. Sono un polistrumentista… non vedo niente di eccezionale in questo e non sono l’unico”.
“… avere un atteggiamento consapevole e non retorico, essere interprete e voce della propria gente, impersonarne i linguaggi espressivi, rielaborarne i nuovi contenuti in nuovi contesti senza doversi rinnegare, ma saper avere una presenza altrettanto forte e riconoscibile nell’ambito dei linguaggi contemporanei. È l’intellettuale che io chiamo contemporaneo con radici”.
“Non sono un restauratore, ma so ancora vedere la differenza tra l’invenzione di un nuovo linguaggio e l’impoverimento lessicale, tra la creatività di un idioma e l’analfabetismo di ritorno. Perdere l’etimo significa perdere memoria dei percorsi umani. E anche perdere dignità, inchinarsi alle semplificazioni della lingua di un Impero che intanto ti disprezza come un parvenu”.
“In queste condizioni, unica forma di resistenza è la pratica quotidiana, personale e collettiva, della decolonizzazione, la riconquista dell’autonomia interiore a partire da noi stessi.
Spogliarsi dei modelli ideologici, inevitabilmente carichi di forme apparenti, per praticare modelli etici: l’arte è chiamata a questa funzione per potersi dimettere da una forzata condizione di funzionalità pedagogica, di rigenerazione dei Sistemi. Detto in parole semplici: l’arte non può parlare di libertà, ma deve invece parlare di liberazione”.
E la vita deve continuare a soffiare, non possiamo impedirla con la nostra rigidità. Noi siamo memoria in cammino che sta producendo nuova memoria. Il nostro compito è saper proteggere senza possedere… essere pronti a tutelare la piena soggettività di quello che normalmente chiamano oggetto dell’amore. In questo caso, sa Limba Sarda.
Ti saluto con un abbraccio e appuntiamoci già da ora delle future chiacchierate sulla dicotomia fra etica e morale, appartenenza e identità, sacro e divino, barbarie e civiltà…
Alberto Masala
Ho tradotto (dal francese) il nuovo libro di Hawad, il grande poeta tuareg – mio amico e compagno di strada – per una piccola casa editrice friulana, Edizioni via Montereale, insieme a Vanni Beltrami che ha fatto la prima stesura. La cura del libro e la traduzione dal francese sono di Hélène Claudot-Hawad, eccellente studiosa della gente Tuareg. la postfazione di Ludovica Cantarutti.
Dentro la Nassa è un libro importante che denuncia lo sfruttamento dei territori tuareg da parte delle multinazionali che stanno estraendo dalle sabbie del Sahara metalli rari e preziosi. Un altro terribile genocidio sta avvenendo nel silenzio generale: gli Stati coinvolti tacciono, o falsificano l’informazione, ed appoggiano le compagnie estrattive. Intanto i Tuareg vengono impunemente sterminati.
La poesia di Hawad, ancora una volta grande testimone dei popoli del deserto, qui rappresenta il drammatico canto della loro resistenza.
stralci dall’introduzione di Hélène Claudot-Hawad
(…) Il testo, compiuto nel 2013, è stato scritto nella tensione della rivolta dell’Azawad, partita all’inizio del 2012 e continuata fino all’intervento militare francese nel gennaio 2013, che infine riesce a rimettere in piedi lo stato e l’armata del Mali in piena decadenza ed a reinstallarli in forza nel Sahara, confermando di voler “dimenticare” il popolo tuareg.
(…) Per Hawad, la creazione dell’Azawad ha sepolto l’essenza della lotta centenaria di un popolo che tenta di liberarsi dal giogo coloniale e neo-coloniale. Se si rivolge all’Azawad in questo testo è perché esso è parte di sé – cioè del Tuareg che lui è –, una parte che ha raggiunto un tale stato di sofferenza, miseria, oppressione, da farle accettare la cancellazione, dietro le etichette che le sono state imposte. Attraverso questo personaggio evanescente, sul bordo dell’abisso, privato della parola, di spazio, di diritto all’esistenza, Hawad tenta di tracciare una figura che, pur priva di gambe braccia e lingua, può rialzarsi proiettandosi altrove…
(…) Il cammino è lungo. Hawad si serve della poesia, «cartucce di vecchie parole, / mille e mille volte falsate, aggiustate, ricaricate», come strumento di resistenza. E nomina i gradi di decomposizione del corpo tuareg e gli interessi minerari internazionali che spingono verso la sua distruzione ed il suo smembramento…
(…) Egli scava le ferite della disfatta e le fa sanguinare per provocare di nuovo una reazione, per rianimare i corpi in preda al tetano, per riportare lo sguardo alla lucidità: «Ma quando si è carne / allo spiedo in un cerchio di fuoco / bisogna saper guardar fisso le le fiamme.
L’obiettivo è valutare chiaramente la situazione e adottare la posizione distanziata che conviene. «Disgustati, / Azawad, sputa dall’alto come un cammello / ma mira bene, sputa sull’occhio buono! // Un guerrigliero sa scegliere il bersaglio / e risparmiare i colpi!»
Tutto ciò che fa male è enunciato chiaramente, come la solitudine «Tu sei solo, Azawad, / senza munizioni né braccia / né compagni o alleati all’orizzonte»
o il diniego «Chi sono gli Autori dei manoscritti?/ Chi sono i fondatori dei muri di Timbuctu? / Non furono le tribù Imessoufa, Imaqesharen, Igdalen, / Illemtayenb e gli Igelad, / Tuareg che oggi / (….) sono bruciati»
o la distruzione «Volti specchi infranti, / ritratti di donne bambini vecchi, / terra e uomini gettati nell’incendio, / in ginocchio nella melma / del fuoco che brucia.»,
o la replica del disastro coloniale «privazione, penuria / peste liturgia d’agonie nel caos / epilessia tellurica fremito della terra / litanie e rosari d’espropriazioni / esclusioni stermini / scorrere di valanghe violenze / distruzioni e quel che segue / rimbalzi di frammenti di sé / che si schiantano / su altri fischi del nulla»
o le illusioni «Non pensare che sotto la ruota / del carro troverai il nido di una chioccia, / salvezza, oblio, dove celarti»
o i compromessi vani «Non mendicare il respiro / della tua esistenza, / stravolgi il destino. // Lo sterminatore della tua gente / non ha bisogno dei tuoi servizi…..»
o l’invasione tecnologica. «Oggi nei cieli del Sahara e del Sahel / non più corvi né avvoltoi, / ma droni e proiettili».
(…) Hawad installa i pilastri che servono a costruire il solo tetto che può ospitare stabilmente i Tuareg, cioè se stessi che si riconoscono in se stessi: «Oltre a te, non c’è un altro / Tuareg di riserva / dietro cui tu possa riposarti».
(…) Perché, come l’Autore ricorda instancabilmente in tutte le sue opere, «essere sconfitti è un’arte / che si pratica nella solitudine / della penombra.»
(…)
Hélène Claudot-Hawad, settembre 2013
Nonostante la mia tenera età, i cari fratellini rappers – #StranosElementos – continuano a chiamarmi nelle loro imprese. Il loro ultimo lavoro è fantastico. E con un bel po’ di contributi fortissimi che elenco più sotto. Il disco si può scaricare interamente gratis a questo link su YouTube. La tematica? Lo dice il titolo stesso: una denuncia della vera Sardegna di oggi, colonizzata, invasa dai militari, inquinata, espropriata. Una Nazione senza diritti… la terra dei tumori e delle bombe. Per saperne di più, un’intervista su NOOTEMPO a questo link.
Oro Incenso e Quirra
Ecco il mio pezzo con la traduzione per chi non capisse il sardo-logudorese. S’intitola “A unu sard’ arressu” ed ho fatto una scommessa con me stesso: calare nel rap metri classici attingendo (e adattando) forme sardo-ispaniche che probabilmente hanno almeno quattro secoli (la struttura è: undhighina cun serrada / sestina retrogada). Ma, in fondo, basta restare sempre nel 4/4…
i contributi al disco sono di:
✘ Acero Moretti
✘ Alberto Masala
✘ Arricardu Pitau
✘ Camicie di Forza
✘ Dj Dras alias Sandro Rocchigiani
✘ ERGOBEAT
✘ Feitz
✘ Futta
✘ Pietro Rigosi
✘ MALAM InTè
✘ Marco Colonna
✘ Micho P Maloscantores
✘ Quilo kg Sa Razza
✘ Peterson Junior
✘ Su Akru
✘ Tone Abstract
✘ Tony Covarrubias
Aperto ad Atene il 22 aprile 2016, il City Plaza è stato trasformato da un hotel abbandonato da 8 anni in un progetto che fornisce una sistemazione, cibo, assistenza sanitaria e istruzione a oltre 1.500 rifugiati provenienti da paesi diversi, inclusi molti bambini, anziani, malati ed indifesi.
City Plaza è un’alternativa alle condizioni inumane dei campi profughi. Ospita i rifugiati nel cuore di Atene e offre una casa nella quale 400 sfollati possono vivere in sicurezza, con dignità e privacy, il genere di vita che non è possibile nei campi ufficiali e nei centri di detenzione.
Ma City Plaza non è solo un progetto di locazione. Si tratta di un progetto politico volto a dimostrare che è possibile gestire uno dei migliori spazi per alloggiamento in Grecia senza impiegati, finanziamenti istituzionali o esperti, attestando che sia una decisione consapevole il fatto che lo Stato non operi in tal modo. Questa decisione rafforza i confini e isola tanto fisicamente quanto socialmente i rifugiati, i quali vengono sistemati nei campi, nei centri di detenzione e nelle zone a rischio conflitto. City Plaza ha giocato un ruolo cruciale nel movimento di solidarietà per i profughi, guidando la campagna internazionale contro l’accordo tra UE e Turchia, lottando ed ottenendo i diritti dei rifugiati ad accedere all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
City Plaza non riceve alcun finanziamento da governi o ONG. Viene interamente supportato dalla solidarietà della Grecia e del resto del mondo. Persone da tutto il globo arrivano al City Plaza per lavorare e vivere insieme ai residenti come espressione della loro solidarietà.
Il 7 giugno 2017, numerosi organi d’informazione hanno denunciato come City Plaza, così come Papouchadiko e Zoodochou Pigis 119, altre due strutture occupate, siano state minacciate di sfratto. Sfratto che significherebbe per gli oltre 400 residenti di City Plaza, inclusi più di 150 bambini, essere costretti a tornare nei campi profughi o a vivere per le strade di Atene. Non è solo la loro casa ad essere minacciata, ma altresì la loro sicurezza e il loro benessere.
Grazie alla tua solidarietà e al tuo supporto saremo in grado di mantenere aperto City Plaza. Per favore, firma e condividi questa petizione!
https://www.change.org/p/hands-off-city-plaza-and-all-squats
venerdì 10 marzo alle ore 21
a Milano
Villa Schleiber, via Felice Orsini, 21
notizie e storia di questo libro sono qui
Pesa Sardigna è un blog anticolonialista (come lo sono anch’io) che ha preso nome da un mio verso. Mi fa piacere, li ringrazio ed auguro loro lunga vita. Nel primo numero aprono la pagina della cultura intervistandomi. e anche se l’intervista è anonima, io ringrazio Luana Farina per avermi fatto quelle domande. Ecco qui il link. Buona lettura.
Intervista ad Alberto Masala poeta e scrittore.