lo scatto è di Fotografia Dinamica (grazie)

Perché sto con i pastori.

Non ci sarebbe tanto da spiegare. Sono sardo, provengo da una zona del Logudoro, il Monte Acuto, ad economia agro-pastorale. Sono per parte di madre di famiglia di allevatori. La grande maggioranza dei miei amici, dei miei compagni di scuola, dei miei parenti, viene da generazioni di allevatori e pastori. Io sono cresciuto lì e ho sempre visto i pastori intorno a me. I pastori nei millenni hanno creato una grande cultura in cui sono cresciuto e mi sono formato.

In più, se questo non bastasse, i pastori hanno inventato la poesia, di cui mi nutro, e me l’hanno insegnata.

Infine: io sto con i pastori perché le loro rivendicazioni sono giuste. E non sto qui a commentarle.

Voglio invece parlare di un altro episodio, un post su Fb di un amico, Leonardo Solinas del gruppo rap di Porto Torres Stranos Elementos con cui ho condiviso momenti belli e importanti e che ringrazio per avermi invitato a partecipare ai loro ultimi due dischi. (Qui il mio percorso con loro)

il post di Leonardo, dove è evidente che anche lui sta con i pastori, ha suscitato diverse reazioni ed è pieno di amarezza e giuste osservazioni che condivido. Gli ho voluto rispondere con altre ragioni. lo riporto qui:

Io non sto con i Pastori o meglio io non sto con quei pastori che qualche anno fa durante le manifestazione del MPS a Cagliari indossavano la maglia nera con la scritta Boia chi molla, o con l’immagine del duce, non sto con quei pastori che hanno continuato a votare la merda della merda in cambio delle briciole, con quelli che nascondevano l’inquinamento dei poligoni militari perchè non avrebbero corso il rischio di non vendere più nulla ma nel mentre avvelenavano altr* sard*, con quelli che nutrono le loro pecore con mangimi pieni di ogni porcheria provenienti da chissà dove, non sto con quei pastori che anche oggi si siedono al tavolo di chi li ha ridotti in miseria barattando la dignità, con quei pastori che ai bar tra una staffa e l’altra si riempiono la bocca di n*gr* di merda scaricando la colpa dei loro fallimenti a chi sta messo peggio, non sto con quelli che hanno fatto ogni tipo di manfrina pur di fregare soldi alla comunità europea, ma soprattutto non sto con quei pastori quelli leali quelli che amano il loro lavoro fatto di sacrificio e di sabati e domeniche a lavoro che non prendono le distanze da questi personaggi che continuano a distruggere quel poco di buono che questa terra regala.
Mi spiace ma io non seguo le pecore che oggi nei social riempiono di hastag la loro home in nome di una solidarietà ipocrita, ho imparato nella vita a prendere una posizione e di mantenerla anche a costo di diventare un rompicoglioni, ma sono anche pronto a schierarmi, a scendere nuovamente in piazza a patto che trovino il coraggio di mandare a cagare le mele marce che impediscono che una lotta di categoria si trasformi in una lotta di classe e di un popolo.

e qui la mia risposta:

Caro Leonardo, voglio raccontarti un episodio che il tuo post mi ha fortemente richiamato.

Alla fine degli anni novanta, oltre vent’anni fa, fui invitato in uno spazio del Veneto, a Treviso, per una lettura e un incontro col pubblico. La sala era piena, e, scoprii dopo, affollata soprattutto da operai. Dopo la lettura dei miei testi, venne il momento del dialogo con quel pubblico vivace e partecipativo. Tutto molto bene fino a quando il discorso non si spostò sul tema del rapporto della cultura con la “classe operaia”, e, nello specifico, del lavoro da poeta e gli operai.

In quegli anni, già dal 1992, avevo scelto di abbandonare ogni altro mestiere precedente. Prima il teatro, poi un breve periodo di cinema, poi le direzioni artistiche anche internazionali, e così via… tutte cose che mi rendevano sufficientemente e, nonostante comportassero grandi sacrifici, mi facevano vivere di cultura.
Avevo deciso di dedicarmi esclusivamente alla scrittura. Una scelta radicale che mi costava molto sia dal punto di vista economico che fisico. Venivo da un periodo molto precario, ero stato senza casa, vivendo ospite o in squats per tre o quattro anni, appoggiandomi a situazioni di grande instabilità.
Quando feci quella scelta, non avevo denaro e mi sostentavo facendo lavori precari, quasi tutti a nero, di basso livello e davvero molto faticosi. Ma ero giovane e nel pieno delle forze. Affrontavo il mio destino con energia e positività. Lavoravo tutto il giorno fisicamente come una bestia, i lavori più infami e più pesanti, e poi, la sera, tornavo a casa a leggere, studiare, scrivere. Facevo due lavori: quello intellettuale e quello manuale senza farmi problemi. E li facevo a tempo pieno ambedue.

Ma torniamo all’incontro in Veneto. Ad un certo punto del dibattito, spinto da tante incalzanti insistenze, mi lasciai andare ad un’affermazione che suscitò quasi una rivolta. Con giovanile e infiammata incoscienza dissi che, sì… vivevo le mie giornate in mezzo agli operai, ma, tranne pochissime eccezioni, avevo poco a che spartire con la maggior parte di loro. Infatti, al contrario dei miei compagni di lavoro, non passavo i miei pomeriggi al bar a parlare di calcio, di macchine, di mangiate e bevute, e nemmeno mi fermavo con loro in branco a commentare i culi delle donne che passavano. Affermai che con loro avevo poco da spartire perché i più erano omofobi, sessisti, educavano male i loro figli dando pessimi esempi riguardo ai bisogni spirituali e intellettuali, trattavano con volgarità e arroganza le donne a partire dalle loro stesse mogli, e, se avevano due soldi in più, non compravano un libro: investivano nella macchina nuova o nel televisore più grande.
Insomma: non m’identificavo in nessun aspetto del loro modello di vita. Terminai con una frase epica:
”Lotto, continuerò a lottare. Ci sono e ci sarò. Saprò sempre da che parte stare. Ma per favore non fatemeli conoscere. Non voglio avere niente a che fare con quel mondo, altrimenti smetterò anche di lottare.”
Scoppiò un tumulto. Fui aggredito verbalmente e mi giocai all’istante le simpatie dell’uditorio.

Ma stavo annusando i tempi. Poco dopo, molti di quelli che mi aggredivano già votavano la Lega Nord, parlavano degli immigrati e dei “terroni” con un disprezzo non più celato, e finalmente si palesavano quelle tensioni che in loro erano state vigliaccamente soffocate. E non erano per niente diversi dai metalmeccanici per i quali ci mobilitavamo tutti, che in Sicilia, a Termini Imerese, intanto votavano Berlusconi con tensione unanime aspettando da lui chissà quale miracolo.

Insomma: oggi sto con i pastori come ieri stavo certamente con gli operai. E probabilmente quella volta in Veneto mi sbagliavo a parlare come ho fatto.
Ho capito che dobbiamo comunque portare avanti le tensioni, le idee, il pensiero, l’etica, la lotta.
Per questo continuiamo a resistere. In questo siamo partigiani.

Ti abbraccio fraternamente e ti ringrazio.
Alberto

infine, io sto con i pastori nonostante …

In questi giorni terribili per la Palestina esce un mio nuovo libretto – a Gaza – edito da HEKET in una preziosa tiratura limitata.

Lo presento oggi, 15 aprile 2018, alle 20,30 insieme a Valerio Grutt e Matteo Totaro al Binario69 di Bologna.

Subito dopo, alle 21 circa, sarò in concerto nel duo con Marco Colonna, l’ispiratore del testo nel 2014 (che si può sentire a questo link).

Ecco l’evento con tutte le indicazioni:
https://www.facebook.com/events/231578720742167/

Mi sono deciso a prendere posizione dopo che da alcuni giorni in rete vedo circolare opinioni sulla Razza Bianca con le olive VERDI, quella che dalle mie parti è detta “alla bosana“. Ebbene, lasciamo pure che a Bosa continuino a coltivare la loro visione della Razza con le olive verdi. Niente di male, ne hanno il diritto. Ma non vorrei che questo diventasse il parametro comune sulla preparazione della Razza Bianca. Le olive VERDI infatti trasmettono una certa acidità che potrebbe essere anche non gradevole al palato. Io la considero soltanto una delle varianti della tradizione. Come un’altra variante – anch’essa da me sconsigliata – è quella con l’aggiunta di un trito di capperi (pur se a fine cottura perché non prendano l’amaro).

Per la precisione dunque, ecco qui la ricetta come si prepara a casa mia e, a quanto mi risulta, in tutta l’isola. Una ricetta tipicamente sarda che riporto qui sotto.

LA RAZZA BIANCA IN AGLIATA

Ingredienti per 4 persone.

– 1 kg di Razza Bianca
– 8 pomodori secchi (perché risultino più buoni io uso conservarli insieme a foglie d’alloro).
– prezzemolo
– un paio di spicchi d’aglio
– aceto (un bicchiere)
– olio extravergine (questo sì, possibilmente di olive bosane)
– sale

Preparazione

– Ripulire bene la Razza (spellando e sfilettando) per lasciare solo le parti accettabili. Questa è senz’altro la fase che richiede più “mano” per la sua difficoltà. Delle interiora si terrà solo il fegato (parte ottima).
– Infarinare e friggere il pesce fatto a pezzetti. Estratti i pezzi dall’olio, asciugarli e salarli molto leggermente.
– A parte preparare un po’ di pomodoro passato. Se si hanno a disposizione dei buoni pomodori dolci e maturi, sbollentarli un attimo, pelarli e passarli dopo aver eliminato l’interno e i semi, altrimenti utilizzare circa mezzo litro di passata in bottiglia.
– Preparare il soffritto col trito fine di aglio e prezzemolo. Unire il trito di pomodori secchi e i fegatini a pezzi (ben asciugati precedentemente). Cuocere per pochi minuti.
– Versare il pomodoro e cuocere ancora per almeno una decina di minuti.
– Aggiungere l’aceto (di vino, mi raccomando!) e far “stringere” la salsa.
– Quando sarà pronta, farla raffreddare e poi versarla sulla Razza Bianca fritta.
– Guarnire con altro prezzemolo tritato.

ATTENZIONE!

Perchè il piatto sviluppi tutto il suo gusto occorre farlo riposare per almeno 12 (meglio ancora 24) ore. Infatti la Razza Bianca va servita fredda accompagnata da un buon vino bianco fresco di bassa acidità. Escludere dunque tutti gli acidissimi vini padani e rivolgersi a vini sardi o meridionali, gli unici davvero perfetti nell’esaltare le caratteristiche della Razza Bianca. Vini, insomma, che abbiano preso tanto sole in una terra non fangosa e ben drenata, e le cui uve non siano cresciute su quei tristissimi vitigni a spalliera con le propaggini disperatamente protese alla ricerca di una pallida luce tra le mefitiche nebbie del nord.

 

nutria

Caro direttore Marco Damilano,

mi concedo il “caro” perché, da convinto fan dello Spiegone, per me lei è come uno di famiglia.

Dopo questa premessa, subito al punto: la spropositata intervista a Michela Murgia, ospitata da L’Espresso. Spropositata, oltre che culturalmente immeritata e filosoficamente immotivata, nei contenuti e nella rilevanza che si offre ad un pensiero sostenuto in maniera superficiale.

Il meccanismo è facile da individuare: lanciarne una sempre più grossa che scavalchi nelle dimensioni e nella portata quella precedente. Un congegno mediatico già ben descritto da Benjamin fin dal 1936 nel suo saggio L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, e poi da Guy Debord in La società dello spettacolo (1967). Niente di nuovo: sorprendere con azioni o affermazioni per passare poi, di shock in shock, attraverso un superamento progressivo che orienta sempre il livello dell’attenzione, mediatica e culturale, su sé stessi.

Questa è la tecnica in cui l’operosa Michela Murgia, nessuno glielo nega, è nota. Ottima interprete di ruoli, perfetta sollevatrice di polveri che poi ricoprirà con il polverone successivo. Sostanza? nessuna… solo apparenza, che necessita di un Narciso abnorme capace di spingere l’Ego senza limiti in tutte le direzioni. Una Vanitas incontenibile che porta a rubacchiare, sgraffignare, grattare, carpire, arraffare… appropriarsi impunemente e spudoratamente di concetti e idee che non le appartengono in nessun modo. Fin qui niente di preoccupante: tutti noi abbiamo assunto idee da pensatori che ci hanno preceduto. Io per primo ho enormi debiti con numerose menti del passato, ma con almeno il buon gusto di non spacciarle per pensiero originato dalla “mia brillante intuizione” e, soprattutto, di approfondirle e non indossarle volta per volta a seconda della sbalordita audience.

E passi… avrei potuto anche tacere su questa ennesima appropriazione indebita di un materiale talmente effimero ed etereo come il pensiero da non poter essere in nessun modo difeso se non dal pensiero stesso. Compito arduo, dato che oggi la rapidità dei processi non si sofferma sull’intelligenza o sull’analisi, ma produce soltanto opinione in sintesi talmente ambigue da lasciar intravedere tutto e il suo stesso contrario. E la Murgia in questo è davvero maestra. Nel suo ormai noto stile bisogna riconoscere grandi doti da Sibilla.
Stringere i concetti in sentenze compresse e non argomentate è una tecnica dell’opinionista che poi, davanti ad eventuali opposizioni, spinge verso il battibecco, la battuta, il sarcasmo, la discussione anche fino alla rissa. Tecnica da Talk-show. Le sentenze possono restare nella superficialità più compatta e completa: Ibis, redibis non morieris in bello (andrai, ritornerai non morirai in guerra). Dove sarà la seconda virgola? Dopo ritornerai o dopo non? Basta non metterla e tutto si sistema. Questa l’antica tecnica dell’ambiguità e della superficialità contemporanea.

Chiarisco:

– Ora non sto parlando di antifascismo, una coperta talmente vasta sotto la quale chiunque può trovare accoglienza. È il mio ambito dagli anni ’60 del secolo scorso e i miei percorsi non l’hanno mai nemmeno minimamente smentito. E devo sforzarmi un bel po’ per restarci persino con la ex-collaboratrice di Adinolfi …  Benvenuta anche lei, che a spintoni occupa sempre il centro del letto. Io resto al margine della coperta (nonostante il suo tessuto appartenga storicamente molto più a me) e cerco di non farmi sfiorare.

– Non sto parlando di visibilità, condizione dove chi pensa secondo quei beceri paradigmi vorrà subito ricondurmi. Sto defilato. Non ho obiettivi né carriere oltre a quella interiore del percorso del mio pensiero e della scrittura che ne segue. Non vendo niente. Non devo “piazzarmi”. Sto altrove e ci sto bene. Chi mi conosce lo sa. E Michela Murgia mi conosce abbastanza per saperlo.

Dunque perché ora scrivo? Per difendere un concetto contenuto nell’intervista che mi tocca nel profondo, dato che mi riguarda personalmente: quello dell’appartenenza in alternativa al concetto di identità.

Nel 2012 è uscito un mio facile saggio intitolato Geometrie di libertà in cui, attraverso alcuni dialoghi avvenuti nell’arco di 20 anni con giovani intelligenti, analizziamo insieme il rapporto dell’arte e della cultura col sociale. Come agisce il sistema repressivo, quali strumenti utilizza per operare il controllo del pensiero, a cosa serve l’arte, e cose simili…

A questo libretto la Murgia (e non solo lei, ne ho le prove, ma qui non voglio aprire altri files) ha variamente e sfacciatamente attinto senza mai nemmeno citare la fonte.
La prima volta che capitò le dissi personalmente la mia amarezza, e lei, in un dialogo privato inumidito dalle sue lacrime, si scusò come infantilmente fa un bambino che ruba la marmellata. La riparazione apparente avvenne tramite una sua amica che, in un molto marginale convegno di paese, mi chiese di chiarire quei concetti. Lo feci rapidamente e, per non annoiare il pubblico, passai al vero tema dell’incontro. Si chiuse lì con una sua promessa di non ricascarci. Ho il cuore tenero e non sono capace di odio né rancore, però non dimentico mai.

Ora perché insisto? Potrei non rivendicarne la matrice. Continuerei a vivere nel mio felice silenzio, a non dover sopportare il fastidio di mostrarmi, a coltivare la mia difficile condizione quotidiana che riceve un appagamento soltanto dall’inutile dignità che la sostiene.

Perché intervengo pur sapendo che ogni polverone le fa gioco (purché se ne parli…) e continua ad alimentare e amplificare quella sua eccezionale capacità polemica?

Parlo perché vedo quelle mie idee abusate, alleggerite fino alla banalità, diminuite in una piatta mediocrità. Parlo perché le ho pensate e soffro a non difenderle. Parlo per non consentire mai più a nessuno di costruire la propria immagine millantando idee non proprie e riducendole all’inconsistenza. Parlo perché se non lo facessi, vorrebbe dire che quel sistema ha preso anche me.

È il disperato appello della sostanza, perdente nel mondo contemporaneo, perché schiacciata dall’apparenza. Il vero dramma non sta in chi appare e pronuncia, ma nello spazio e l’utenza concessi all’imbonitore senza che si attivi mai una coscienza critica sulle sue strombazzate affermazioni. Panta rei? Oh, no… Non è vero che tutto scorra impunemente, se scorrendo lascia graffi incurabili sulla pelle di altri.

Come si conduce l’operazione? si arraffano le idee di qualcuno non troppo visibile nel sistema mediatico e si confida nel fatto che non reagirà, o che, se lo farà, sarà talmente fragile nei riguardi del consenso da non avere alcuna possibilità di opporsi, di essere visto e creduto. E così si va avanti, con la faccia tosta e l’arroganza che sono parte fondamentale dell’armamentario dello scalatore.

Ora vengo alla fonte: è nell’introduzione – da pag. 13 a pag. 23 – al mio già citato libretto del 2012. Lì si tratta dell’appartenenza (guarda caso, proprio in chiave antifascista!) e più avanti nel libro si parla della patria, concetto che rifiuto nella sua rigidità e che poi risolvo affermando: “Se avessi una patria, questa sarebbe nella mia lingua”, e parlo di lingua madre. Idee che, in un rovesciamento artificioso e funzionale, la Murgia preda abilmente (lo riconosco) e riadatta maldestramente. Ma avesse almeno rispettato i concetti! Forse avrei taciuto.

A prova delle mie affermazioni, pubblico qui l’introduzione (non tutto il libro) e la metto a disposizione di chiunque voglia scaricarla. Se avrete voglia, leggetela, e, comunque, lasciatemi in pace. Non voglio sostituirmi a Michela nella vanitosa scalata all’apparenza. Lei però eviti ogni rumore nelle mie vicinanze, mi lasci pensare e scrivere in pace come ha fatto con me negli ultimi anni. Continui a stendere quel silenzio che nei miei confronti è l’unica arma che possiede. E, poiché si fa chiamare scrittrice, che intanto fornisca prova di esserlo, ma ricordando sempre che nessuno è autorizzato a fregiarsi di alcun titolo se non gli sarà conferito dall’ambito di appartenenza. E che dovrà continuamente meritarlo per non essere destituita dal carico di portarlo. Non venda idee come quel famoso bottegaio di libri che riuscì a costruire un enorme business senza averne mai letto uno. Questo signore era noto per scorrere rapidamente solo le quarte di copertina. Ma ne vendeva tanti e costruì un impero! Libri o prosciutti era lo stesso. Bastava non approfondire.

Suggerisco un’ultima boutade:

Michela propone il termine Matria in sostituzione di Patria. E lo fa senza alcun fondamento filologico o etimologico. Se si dovesse ragionare come lei, gli abitanti della provincia di Nuoro potrebbero cantare inni alla Nutria. Spero che il localismo non porti mai a questo.
Un consiglio: usi il termine Filtria. Indica meglio la nostra vera posizione su ogni terra, che è destinata ai nostri figli – filii – ed appartiene a loro prima che alle madri o ai padri.

Orsù, leviamo insieme inni alla Filtria, capace di estrarci dalle pastoie di una definizione morale ed aprirci a un sguardo etico sul mondo.

Aperto ad Atene il 22 aprile 2016, il City Plaza è stato trasformato da un hotel abbandonato da 8 anni in un progetto che fornisce una sistemazione, cibo, assistenza sanitaria e istruzione a oltre 1.500 rifugiati provenienti da paesi diversi, inclusi molti bambini, anziani, malati ed indifesi.

City Plaza è un’alternativa alle condizioni inumane dei campi profughi. Ospita i rifugiati nel cuore di Atene e offre una casa nella quale 400 sfollati possono vivere in sicurezza, con dignità e privacy, il genere di vita che non è possibile nei campi ufficiali e nei centri di detenzione.

Ma City Plaza non è solo un progetto di locazione. Si tratta di un progetto politico volto a dimostrare che è possibile gestire uno dei migliori spazi per alloggiamento in Grecia senza impiegati, finanziamenti istituzionali o esperti, attestando che sia una decisione consapevole il fatto che lo Stato non operi in tal modo. Questa decisione rafforza i confini e isola tanto fisicamente quanto socialmente i rifugiati, i quali vengono sistemati nei campi, nei centri di detenzione e nelle zone a rischio conflitto. City Plaza ha giocato un ruolo cruciale nel movimento di solidarietà per i profughi, guidando la campagna internazionale contro l’accordo tra UE e Turchia, lottando ed ottenendo i diritti dei rifugiati ad accedere all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

City Plaza non riceve alcun finanziamento da governi o ONG. Viene interamente supportato dalla solidarietà della Grecia e del resto del mondo. Persone da tutto il globo arrivano al City Plaza per lavorare e vivere insieme ai residenti come espressione della loro solidarietà.

Il 7 giugno 2017, numerosi organi d’informazione hanno denunciato come City Plaza, così come Papouchadiko e Zoodochou Pigis 119, altre due strutture occupate, siano state minacciate di sfratto. Sfratto che significherebbe per gli oltre 400 residenti di City Plaza, inclusi più di 150 bambini, essere costretti a tornare nei campi profughi o a vivere per le strade di Atene. Non è solo la loro casa ad essere minacciata, ma altresì la loro sicurezza e il loro benessere.

Grazie alla tua solidarietà e al tuo supporto saremo in grado di mantenere aperto City Plaza. Per favore, firma e condividi questa petizione!

https://www.change.org/p/hands-off-city-plaza-and-all-squats

Milano 10 marzo

venerdì 10 marzo alle ore 21
a Milano
Villa Schleiber, via Felice Orsini, 21

villa Schleiber     villaScheibler

notizie e storia di questo libro sono qui

Omicidio Francesco Lorusso – Una storia di giustizia negata – di Franca Menneas – un libro necessario – a questo link l’introduzione

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una-risata

Non, vous n’êtes pas Charlie.

 

La risata è la linea più breve tra due punti.
E ogni volta rischiara
i vostri immutabili valori.

Posso portarla spenta nel cervello
da qualche parte, in basso, verso il fondo,
avvolta in ragnatele polverose.

Ma, come l’acqua,
ritorna sempre dove ne ha memoria.

E poi come l’amore, malgrado non permesso,
non arretra, dilaga, e ancora di nascosto
senza riguardo ci riemerge al cuore.

La risata
è la distanza giusta fra la patria e il senso.

Voi sarete presenti?
Sapete bene ciò che è conveniente
cercando la salvezza più adatta alla stagione…

Non, vous n’êtes pas Charlie.
Vous n’avez jamais été Charlie.

Jan15-Parade

vik-3

Facciamo economia
(bilancio consuntivo di fine anno in ricordo di Vittorio Arrigoni)

 

Se oggi la pietà non costa molto
e un venditore è abile a rivenderla cara
ci si può ricavare un buon guadagno.
Anche la commozione rende bene
se acquistata a buon prezzo.

La nostalgia, al contrario,
si deve accumulare con lunghi investimenti
a pochi soldi, certo,
ma la resa è più bassa.

Il rendimento della carità
ha un ritorno immediato.
È confortante, alto,
ma dura poco e non si reinveste.
Di solito il cliente
in seguito ricorda ogni carezza
e si emoziona.
Non serve a nulla
ma è pur sempre un ricordo… una memoria…

La compassione, intesa nel suo senso più alto,
è un buon risparmio
è stabile, sicuro, e senza rischio.
Però non verrà niente
perché il cambio è fissato uno a uno.

La speranza non rende.
Anzi… si perde.
Non è un investimento.
Spesso è un titolo tossico, una truffa,
o, come la bontà, una lotteria.
Ma se il colpo funziona…

Pena, indulgenza e misericordia
richiedono assai liquidità:
lacrime, commozione… Ma daranno profitto?
L’investitore normalmente è attratto
dal premio successivo, da godere nei cieli
in rivalutazione… Ma
chi vende questi bond
non fornisce mai dati di ritorno.

La civiltà è un fallimento certo.
Ne abbiamo dei riscontri in tutti i tempi.

S’investe inizialmente con un fondo
morale o di cultura.
Poi parte una campagna capillare
con la pubblicità e offerte di sistemi
sicuri e confortanti.
Persuadono il cliente
ad investire in privilegiate
azioni di Ragione e Verità.
Per non rischiare, con armi e le minacce
si crea l’indotto e si produce il bene.
Però la concorrenza è molto forte.

Infine
resta l’umanità.
Non è quotata
e ha bisogno di nuovi investimenti.
Si raccatta per strada.
E non si vende.

Ma oggi è l’umanità che rende.

24 dicembre 2015

bilancio

C’è un post ricorrente, una poesia di Mario Benedetti tradotta da me, che ripubblico identica ogni volta che muore una canaglia. L’avevo già usata per Pinochet, Pio Laghi, Videla, Andreotti, Cossiga. Questa volta la ripropongo, senza altri commenti, per Licio Gelli, morto oggi a 96 anni. Tranquillamente. Nella sua villa. Protetto. Con tutti i segreti di stragi e colpi di stato. Penso che lo meriti più di chiunque altro.

Los canallas viven mucho, pero algún día se mueren
di Mario Benedetti

Obituario con hurras
Vamos a festejarlo
vengan todos
los inocentes
los damnificados
los que gritan de noche
los que sueñan de día
los que sufren el cuerpo
los que alojan fantasmas
los que pisan descalzos
los que blasfeman y arden
los pobres congelados
los que quieren a alguien
los que nunca se olvidan
vamos a festejarlo
vengan todos
el crápula se ha muerto
se acabó el alma negra
el ladrón
el cochino
se acabó para siempre
hurra
que vengan todos
vamos a festejarlo
a no decir
la muerte
siempre lo borra todo
todo lo purifica
cualquier día
la muerte
no borra nada
quedan
siempre las cicatrices
hurra
murió el cretino
vamos a festejarlo
a no llorar de vicio
que lloren sus iguales
y se traguen sus lágrimas
se acabó el monstruo prócer
se acabó para siempre
vamos a festejarlo
a no ponernos tibios
a no creer que éste
es un muerto cualquiera
vamos a festejarlo
a no volvernos flojos
a no olvidar que éste
es un muerto de mierda.

Le canaglie vivono molto, però un giorno o l’altro muoiono
Necrologio con gli hurrà / Andiamo a fargli festa / vengano tutti / gli innocenti / i danneggiati / quelli che urlano di notte / quelli che sognano di giorno / quelli che soffrono nel corpo / quelli che ospitano fantasmi / quelli che vanno scalzi / quelli che bestemmiano e ardono / i poveri congelati / quelli che amano qualcuno / quelli che mai si scordano / Andiamo a fargli festa / vengano tutti / il crapulone è morto / l’anima nera si è spenta / il ladro / il zozzone / si è spento per sempre / hurrà / vengano tutti / andiamo a fargli festa / a non dire / che la morte / cancella sempre tutto / purifica tutto / per un giorno / la morte / non cancella niente / restano / sempre le cicatrici / hurrà / è morto il coglione / andiamo a fargli festa / a non piangere di contentezza / che piangano quelli come lui / e si bevano le loro lacrime / si è spento il mostro eccellente / si è spento per sempre / andiamo a fargli festa / non restiamo tiepidi / non crediamo che questo / sia un morto qualsiasi / andiamo a fargli festa / non rimaniamo mosci / non scordiamoci che questo / è un morto di merda.

Pinochet pio laghi Cossiga andreotti

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