“E’ in atto una campagna d’odio contro di me, il fascismo e l’Italia.”

(Benito Mussolini, 1932)

“Gli ebrei alimentano una campagna d’odio internazionale contro il governo. Gli ebrei di tutto il mondo sappiano: questo governo non è sospeso nel vuoto, ma rappresenta il popolo tedesco.”

(Adolf Hitler, 1933)

“Abbiamo ricordato agli italiani la campagna di odio e di disprezzo contro Berlusconi che ha innescato una serie di reazioni a catena che hanno portato al gesto di Tartaglia, alla sua esaltazione su Facebook da parte di migliaia di estremisti”.

(Cicchitto 2009)

In rete ho trovato una bella intervista a Beppe Ramina, che dice molto e con chiarezza sull’impegno etico e politico. Beppe è un vecchio amico che non si è mai dimesso dalle proprie responsabilità e, dopo tanti anni, fa piacere ritrovarlo intatto. Parla dell’omosessualità in relazione con la politica, un discorso che oggi si sente fare molto raramente.
Io sono un “etero-militante”, ma vorrei vantarmi di essere stato uno dei primi a varcare la soglia del Cassero, lo storico centro di cultura ed incontro omosessuale a Bologna, ed aver partecipato come artista (sempre etero) al Gay Pride
Bei tempi, quando l’esigenza di liberazione ci affratellava e assorellava tutti. Sapevamo con certezza che quelle non erano battaglie ‘di genere’, ma solo etiche, umane…
Si faceva politica nel modo più divertente che si possa immaginare. Ci eravamo liberati del peso dell’ideologia per trasformarla in ideale, in idea etica, e, soprattutto, in pensiero del quotidiano.

Cito alcuni passaggi dell’intervista a Beppe.
Qui per continuare a leggerla tutta…

« (….) Al di là del rapporto con i partiti, mi pare che sia l’adozione stessa di categorie politiche a indebolire l’energia che avrebbe il pieno dispiegarsi del discorso delle sessualità dei generi, delle omosessualità, del nomadismo identitario. Penso che all’origine della debolezza di visione ci sia qualcosa che affonda nella cultura, che ha a che fare con l’introiezione del pregiudizio omofobico. Da qui un’idea minoritaria di noi stessi, come comunità di persone e come singoli individui; la convinzione, declinata in vari modi, di essere una minoranza e non una parte della società. Agisce altrettanto negativamente la radicata ed estesa convinzione che esistano per davvero persone eterosessuali e persone omosessuali – e che non siano costruzioni sociali – e che il nomadismo erotico e affettivo non sia l’orizzonte di riferimento. Infine, la percezione diffusa di essere vittime e non protagonisti. (….)»

«Le premetto che non sono d’accordo con chi pensa che i successi a livello istituzionale siano la misura della nostra forza e del nostro benessere. Nel momento in cui siamo protagonisti della nostra vita e della nostra storia abbiamo già ottenuto la sostanza di ciò che ci serve: la mia serenità e la mia libertà, anche di lottare, non dipendono dalle concessioni dello Stato o del Vaticano, ma dal darmi valore e agire in autonomia (….)».

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CAMPAGNA NAZIONALE SALVA L’ACQUA


IL GOVERNO PRIVATIZZA L’ACQUA !

è la definitiva consegna al mercato
di un diritto umano universale

IMPEDIAMOLO

firma la petizione

lettera agli Artisti per l’acQua

L’ACQUA E’ UN DIRITTO, NON UNA MERCE.
Oggi sulla Terra un miliardo e trecento milioni di persone non ha accesso all’acqua potabile.
Nel giro di pochi anni saranno tre miliardi.
Abbiamo costruito un mondo in cui pochi hanno tutto e moltissimi non hanno nulla.
Un mondo in cui la ricerca del profitto mette a rischio le risorse naturali. Fino a minacciare la stessa sopravvivenza della vita sul pianeta.
L’acqua è fonte di vita. Senza acqua non c’è vita.
L’acqua è pertanto un bene comune dell’umanità, irrinunciabile e che appartiene a tutti.
Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile: per questo l’acqua non può essere proprietà di nessuno, bensì bene condiviso equamente da tutti.
Le grandi multinazionali si stanno impossessando dell’acqua, in ogni parte del mondo. Vogliono trasformarla in merce e guadagnarci sopra… Tutti assieme dobbiamo impedirlo.
Tutti assieme dobbiamo fermare la privatizzazione dell’acqua.
Lottare contro la privatizzazione dell’acqua è una battaglia di civiltà.
Ci riguarda tutti, cittadini, politici, donne e uomini d’arte e di cultura.
Riguarda i popoli. Riguarda le generazioni che verranno. Il nostro futuro.
Anche in Italia l’acqua è al centro dei tentativi di privatizzazione.
E, come dappertutto nel mondo, anche qui le popolazioni si oppongono.
Dicono basta. Dicono che bisogna cambiare. Lo dicono in tantissimi.
E hanno scritto una legge d’iniziativa popolare. Una legge per dire che l’acqua è un bene comune e un diritto umano universale. Una legge che toglie l’acqua dal mercato e la restituisce alla partecipazione delle comunità. Una legge che sta girando l’Italia. Una legge che chiede a tutti una firma.

Io ho deciso di metterla.
Alberto Masala

Artisti per l’AcQua

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CAMPAGNA “Y€S, WE CASH!”
per il reddito minimo garantito

Questo blog nasce come strumento comunicativo utile per condividere informazioni, documenti, riflessioni con tutti coloro che sono interessati alla campagna “Y€s we cash!” per promuovere una legge regionale sul Reddito Minimo Garantito in Emilia Romagna.

Città in cui è presente: Bologna, Rimini, Parma, Reggio Emilia.

azione in consiglio regionale

bartleby è tornato a casa
audiocomunicati e informazioni su zic.it

come il Ku Klux Klan

L’uso del crocefisso, come ci ricorda la storia, è quello di un potere basato sull’arroganza, la violenza e la sopraffazione.

Militarizzato da Costantino, vessillo delle conquiste dei Crociati, simulacro delle torture e i roghi dell’Inquisizione, impugnato nelle scorribande dei conquistadores, paravento delle ricchezze e del potere vaticano fino allo IOR di Marcinkus, brandito dalle dittature più sanguinarie in America Latina, simbolo delle “battaglie cristiane” di tutti i tempi, oggi si vorrebbe che, con questo retaggio, permanesse ancora nei luoghi pubblici e nella scuola.
Un simbolo che gronda sangue e rappresenta l’ingiustizia prima di riuscire ad assumere quella legittima parvenza spirituale che viene negata ed impedita dai suoi stessi utilizzatori finali.Stessi metodi e stesso linguaggio di chi circa 2000 anni fa ha invocato urlando il Crucifige. Sono queste le radici cristiane dell’Europa? Non le nostre di certo. E in tutto ciò Cristo non c’entra di sicuro.

(clicca sulle foto per ingrandire)

Riporto qui il comunicato stampa dello UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) sugli sviluppi in Italia dopo la sentenza dell’Unione Europea.

Gli atei italiani denunciano numerosi episodi persecutori e intimidatori giunti al loro indirizzo dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’illegittimità del crocifisso in classe. Tre croci, accompagnate dalla scritta «Cristo», sono state dipinte sulla recinzione della casa della famiglia promotrice dell’azione legale. L’Uaar ha ricevuto messaggi minatori e insulti via mail. Il gruppo Facebook Se stacchi il crocifisso ti stacco le mani ha raggiunto i quindicimila adepti. Crocifissi sono stati appesi sulla porta della sede Uaar di Treviso, insieme alla scritta: «la vostra ragione non cancellerà la nostra tradizione». E ieri, davanti alla sede del partito radicale romano, è esplosa una bomba carta. Come firma, di nuovo un crocifisso. (continua a leggere)

Gentile Signora Sonia Gandhi,

Lei, che ha a radici nel Paese in cui viviamo, è stata ed è da tempo una delle figure più importanti e influenti della politica di una nazione laica tanto grande, complessa e piena di energia come l’India.

Per questa ragione noi, intellettuali, poeti, artisti e scrittori italiani ci rivolgiamo a Lei e le chiediamo di intervenire in aiuto di una grande scrittrice, nota in tutto il mondo e perseguitata da tempo per la sola colpa di amare la libertà e di combattere, da non credente, in nome dei diritti e della dignità delle donne di tutto il mondo: Taslima Nasreen.

Come Lei certamente sa Taslima Nasreen è di lingua e cultura bengalese, e da tempo le viene impedito di vivere nel suo paese, il Bangladesh, a causa delle minacce e delle pressioni dei gruppi di integralisti musulmani che le hanno scagliato contro ben due fatwah e posto diverse taglie sulla sua testa, per punire il suo orgoglio e contrastare la battaglia per la libertà e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani.

Nonostante questo, Taslima Nasreen gira tutto il mondo per far conoscere la grandezza e la ricchezza della sua terra, della sua cultura, della sua lingua, senza per questo rinunciare ad esprimere liberamente il suo pensiero, senza temere di criticare ciò che qualsiasi società civile rifiuterebbe: la schiavitù della donna, i soprusi contro la sua intelligenza, la sua sensibilità e il suo corpo, nonché gli abusi da parte di un regime autoritario e teocratico.

Dal 2004 fino a poco tempo fa, Taslima Nasreen viveva in esilio in India, paese che considera la sua patria adottiva, ma sin dal giorno del suo arrivo non si sono fatte attendere le minacce, le aggressioni, le campagne stampa diffamatorie orchestrate da gruppi integralisti musulmani. Questi attacchi hanno fatto sì, infine, che la scrittrice venisse allontanata anche dall’India.

Da quel momento non le è più consentito di fare ritorno nella sua casa a Calcutta, dove sono ancora tutti i suoi beni, i suoi libri, ogni cosa che le appartiene, materialmente e sentimentalmente.

Noi – che svolgiamo un lavoro tanto simile a quello di Taslima – possiamo soltanto immaginare quale terribile ferita, quale irrimediabile danno possa causare nella vita di una scrittrice l’esilio forzato, la lontananza imposta dalla propria lingua, il violento strappo che separa dalle radici a cui si sente di appartenere.

Taslima non vuole vivere in Occidente, vuole tornare a risiedere là dov’è nata, nel subcontinente indiano. Se le fosse consentito di tornare a vivere in India, Taslima potrebbe fare molto di più nella lotta che da tempo la impegna per la difesa della dignità delle donne e per la diffusione della democrazia e dei diritti umani, ideali che sappiamo anche Lei condivide.

Taslima ha già provato due volte a tornare in India, ma non appena arriva le viene comunicato l’ordine del Governo indiano di lasciare il paese.

Troviamo tutto ciò scandaloso e indegno. Noi abbiamo la concreta speranza che Lei, Signora Gandhi, voglia intervenire affinché a una così importante scrittrice e poetessa, che da anni mette in gioco la sua vita in nome della libertà e della democrazia, sia infine permesso di tornare nella sua casa, tra la sua gente, circondata dal suono della sua lingua, nell’unico luogo dove, com’è suo diritto, lei desidera vivere.

Lei, Signora Gandhi, è uno dei principali leader di un paese democratico e noi tutti, artisti, intellettuali e scrittori italiani, ci aspettiamo che faccia qualcosa per difendere il diritto di Taslima a tornare a casa, a dispetto di tutte le pressioni e le prepotenze dei fanatici, nemici della libertà e della convivenza.

Nel ringraziarLa della sua attenzione, Le inviamo i nostri più distinti saluti,

Lello Voce, Wu Ming, Valerio Evangelisti, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Ermanno Cavazzoni, Dima Saad, Paolo Repetti, Franco “Bifo” Berardi, Gianni Biondillo, Beppe Sebaste, Giorgio Vasta, Gabriele Frasca, Laura Pugno, Stefano Tassinari, Maria Rosa Cutrufelli, Kai Zen, Franco Buffoni, Luigi Nacci, Guido Barbujani, Simone Regazzoni, Giaime Alonge, Giovanna Cosenza, Marco Palladini, Tiziana Colusso, Chiara Daino, Guglielmo Pispisa, Monica Mazzitelli, Sergio Paoli, Nino G. D’Attis, Rossella Macchia, Giacomo Verde, Rosaria Lo Russo, Claudio Calia, Alberto Garlini, Maria Valente, Alberto Masala, Vanni Santoni, Simone Sarasso

da qui per aderire all’appello

>Emessa a Ferrara la sentenza del processo Aldrovandi: i poliziotti colpevoli.


Tutti condannati a tre anni e sei mesi i quattro poliziotti colpevoli dell’omicidio di Federico Aldrovandi. Oltre al carcere, dovranno risarcire per 270.000 euro complessivi le parti civili.

Ecco i loro nomi:
Forlani Paolo,
Segatto Monica, Pontani Enzo, Pollastri Luca.

Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi: “E’ stata durissima, ho avuto tanta paura che i poliziotti se la cavassero, ma ci ho sempre creduto”.

Grazie all’amore con cui ha tenuto sempre viva l’esigenza di verità e giustizia in un coraggioso BLOG

Su ZIC.it una bella ed accurata ricostruzione sintetica dell’intero processo.


>senza parole riporto questo triste comunicato

Sabato 14 febbraio alle ore 16
critical mass silenziosa a lutto
Piazza Nettuno, Bologna

Domenica 8 febbraio in via Saragozza angolo via Audinot alle ore 21,30 Paride è stato investito e ucciso da un SUV guidato da un ventenne che era sulla preferenziale. La notizia è qui.

Nel frattempo ci son stati altri due investimenti mortali in provincia di Bologna.

Paride Emiliano Idda era un ragazzo sardo di 24 anni, uno studente di Sassari, un fumettista appassionato di pittura che frequentava la ciclofficina e lo spazio sociale autogestito XM24 a Bologna. Giovedì 12 febbraio alle ore 12 sul luogo dell’incidente un gruppo di ciclisti ha appeso questo striscione


Nella serata di Domenica 8 febbraio 2009 Paride pedalava su via Saragozza quando è stato travolto e ucciso da un SUV. E’ l’ennesimo ciclista morto a Bologna, città che in soli due anni ha visto morire sulla sella ben cinque persone, tutte vittime del traffico motorizzato. Il vocabolario certamente non riesce ad esaurire tutto ciò che solo un doloroso silenzio potrebbe suggerire. E non sta a noi fare la cronaca di una morte che, mentre ammutolisce in quanto esseri umani, costringe tutti a non poter più tacere. Perché di nuovo, ancora, essa è l’estrema ma già nota conseguenza di una situazione che vede l’automobile rivelarsi come l’emblema di una cultura occidentale votata all’auto distruzione.

A Bologna di tutto questo se ne fa esperienza quotidiana. A nulla servono le mosse ridicole di quegli amministratori che vogliono rifarsi il trucco spacciando Bologna come città della bicicletta, Bologna ciclabile, Bologna va in bici e altre formulette per l’evenienza, perché così, drammaticamente, non è. Rifiutiamo indignati queste mascherate opportunistiche, poiché esse offendono sfacciatamente chi ogni giorno sceglie criticamente, sui propri pedali, di affrontare una città congestionata per tentare di ritrovarla, per reinventarla, per amarla. E prontamente gli avvoltoi mediatici sono scesi in picchiata sulla preda, per trarne desertificanti verità preconfezionate, ma che sappiamo ormai essere già da tempo scadute. Il collegamento, ad esempio, assolutamente ideologico, fra presunta ebbrezza del guidatore, mancato rispetto delle regole stradali e morte. Sappiamo invece che sul castello di carta della famigerata “sicurezza stradale” (formula tanto in voga quanto vacua) sta in bilico una società che, suo malgrado, sconta ogni giorno gli effetti e le conseguenze della secolare mitologia del “progresso”

che si è abbandonata totalmente alla Macchina, in un delirio fideistico risoltosi ben presto in dipendenza distruttiva da conflitti armati per il controllo di territori, persone e risorse energetiche

che ha preso la forma di asfissianti realtà urbane nelle quali vige la più selvaggia norma del “si salvi chi può”

che in mezzo alle nebbie dello smog urbano si dibatte convulsa, evitando di voler riconoscere se stessa in una morte che è sempre stata già lì, per terra, sull’asfalto quotidianamente unto dall’indifferenza.

per saperne di più visita i siti:

e dopo la giornata della memoria, si ricomincia a smemorare in un rituale che ormai è diventato vuoto e formale come, per esempio, un 8 marzo preceduto e seguito da stupri e violenze sistematiche sulle donne…

non ci piace assistere immobili all’accapparramento da parte delle istituzioni di tematiche e territori che riguardano più lo spirito e la coscienza di ognuno… per un giorno all’anno possono dare una cristiana sciacquatina con i buoni sentimenti e poi… si continua peggio di prima: genocidi, guerre, pulizie etniche, razzismi…

tanto per non fargliela passare liscia troppo facilmente, pubblico una lettera per la giornata della memoria di Michael Warschawski, israeliano di Alternative Information Center

18 gennaio 2009

Assolutamente No! Non nel loro nome, non nel nostro.

Ehud Barak, Tzipi Livni, Gabi Ashkenazi e Ehud Olmert – non osate mostrare la vostra faccia durante una cerimonia per commemorare gli eroi del ghetto di Varsavia, Lublin, Vilna o Kishinev. E neanche voi dirigenti di Peace Now, per cui la pace significa la pacificazione della resistenza palestinese, con ogni mezzo, incluso la distruzione di un popolo. Se ci sono, io stesso farò il possibile per espellervi da questi eventi, perché la vostra presenza sarebbe un sacrilegio immenso.

Non nei loro nomi.

Non avete diritto di parlare in nome dei martiri del nostro popolo. Voi non siete Anna Frank del lager di Bergen Belsen, ma Hans Frank, il generale tedesco che agì per affamare e distruggere gli ebrei di Polonia.

Non rappresentate nessuna continuità con il ghetto di Varsavia, perché oggi il ghetto è qui davanti a voi, il bersaglio dei vostri carri armati e la vostra artiglieria, si chiama Gaza.
Gaza, che voi avete deciso di eliminare dalla carta, come il generale Frank voleva eliminare il ghetto. Ma a differenza dei ghetti di Polonia e Bielorussia, dove gli ebrei sono stati abbandonati da quasi tutti, Gaza non sarà eliminata perché milioni di uomini e donne da tutto il mondo stanno costruendo uno scudo umano potente su cui campeggiano due parole: Mai Più!

Non nei nostri nomi.

Insieme a decine di migliaia di ebrei, dal Canada alla Gran Bretagna, dall’Australia alla Germania, vi avvertiamo: non osate parlare a nome nostro perché vi perseguiremo, anche – se necessario – nell’inferno dei criminali di guerra, e vi ricacceremo le parole in gola, fino a farvi chiedere perdono per averci coinvolto nei vostri crimini. Noi, e non voi, siamo i figli di Mala Zimetbaum e Marek Edelman, di Mordechai Anilevicz e Stephane Hessel, e portiamo il loro messaggio all’umanità per tutelare la resistenza di Gaza: “Lottiamo per la nostra e la vostra libertà, per il nostro e il vostro orgoglio, per la nostra e la vostra dignità umana, sociale e nazionale” (Appello dal Ghetto al mondo, Pasqua, 1943)

Ma per voi, leaders di Israele, “libertà” è una parola sporca. Non avete nessun orgoglio e non capite il significato della dignità umana.

Noi non siamo “un’altra voce ebrea”, ma invece l’unica voce ebrea capace di parlare a nome dei martiri torturati del popolo ebreo. La vostra voce non è altro che l’antico clamore bestiale degli assassini dei nostri antenati.

pulizie a Gaza
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Absolutely Not in Their Name, Not in Ours

Michael Warschawski, Alternative Information Center (Israel)
Jan 18, 2009

Absolutely Not! Not in Their Name, Not in Ours.
Ehud Barak, Tzipi Livni, Gabi Ashkenazi and Ehud Olmert–don’t you dare show your faces at any memorial ceremony for thehttp://www2.blogger.com/img/blank.gif heroes of the Warsaw Ghetto, Lublin, Vilna or Kishinev. And you too, leaders of Peace Now, for whom peace means a pacification of the Palestinian resistance by any means, including the destruction of a people. Whenever I will be there, I shall personally do my best to expel each of you from these events, for your very presence would be an immense sacrilege.

Not in Their Names

You have no right to speak in the name of the martyrs of our people. You are not Anne Frank of the Bergen Belsen concentration camp but Hans Frank, the German general who acted to starve and destroy the Jews of Poland.

You are not representing any continuity with the Warsaw Ghetto, because today the Warsaw Ghetto is right in front of you, targeted by your own tanks and artillery, and its name is Gaza. Gaza that you have decided to eliminate from the map, as General Frank intended to eliminate the Ghetto. But, unlike the Ghettos of Poland and Belorussia, in which the Jews were left almost alone, Gaza will not be eliminated because millions of men and women from the four corners of our world are building a powerful human shield carrying two words: Never Again!

Not in Our Name!

Together with tens of thousands of other Jews, from Canada to Great Britain, from Australia to Germany, we are warning you: don’t dare to speak in our names, because we will run after you, even, if needed, to the hell of war-criminals, and stuff your words down your throat until you ask for forgiveness for having mixed us up with your crimes. We, and not you, are the children of Mala Zimetbaum and Marek Edelman, of Mordechai Anilevicz and Stephane Hessel, and we are conveying their message to humankind for custody in the hands of the Gaza resistance fighters: “We are fighting for our freedom and yours, for our pride and yours, for our human, social and yours” (Appeal of the Ghetto to the world, Passover 1943)

But for you, the leaders of Israel, “freedom” is a dirty word. You have no pride and you do not understand the meaning of human dignity.

We are not “another Jewish voice”, but the sole Jewish voice able to speak in the names of the tortured saints of the Jewish people. Your voice is nothing other than the old bestial vociferations of the killers of our ancestors.

pubblico integralmente una bella lettera di Franco Berardi (Bifo) che è apparsa su ReKombinant:
[RK] Che dirò ai miei studenti nel giorno della memoria?

L’ho trovata talmente chiara ed importante da sentire la necessità di farla risuonare. D’altronde la funzione di questo blog è sempre stata quella di riecheggiare le voci intelligenti. In questo senso la mia voce non diventa necessaria quando ne appare un’altra così limpida…

Un caro abbraccio ed un ringraziamento a Bifo, filosofo e pensatore ad oltranza, nonché insegnante in una scuola serale di Bologna. Per chi vuole conoscerlo meglio: su questo sitoo su Wikipedia
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«hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame (…) li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».

(Stefano Nahmad, la cui famiglia ha subito le persecuzioni naziste)

Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri.
E’ un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo.
L’anno scorso, avvicinandosi il giorno della memoria che ogni anno si celebra nelle scuole, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: “Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?”
Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti. Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi.
Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati da negrieri schiavisti, pensai all’irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei quasi dire salomonica): “Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra.”

Ammesso che la parola “identità” significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Jehoshua, Gerhom Sholem, Akiva Orr, Else Lasker Shule e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico. Nell’epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell’intellettuale ed hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e anche dell’internazionalismo socialista.
Come scrive Singer, nelle ultime pagine del suo Meshugah: “La libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta.”
Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. E’ il paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.
In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: “Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico.”

Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato
particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti. “Due popoli due stati” é una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea – profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanja o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.
Non ho mai scritto nulla, (mi dispiace doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo studente Claude. Considero il sionismo causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, ma soprattutto lo considero causa di un pericolo mortale per il popolo ebraico. A causa della violenza sistematica che il sionismo ha scatenato negli ultimi sessant’anni, la bestia antisemita sta riemergendo, e sta diventando maggioritaria se non nel discorso pubblico nel subconscio collettivo.
Dato che non è possibile affermare a viso aperto che il sionismo è una politica sbagliata che produce effetti criminali, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il sionismo con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico.
Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.
Trasformare la questione ebraica in un tabù del quale è impossibile parlare senza incorrere nella stigmatizzazione benpensante sarebbe (anzi è già) la condizione migliore per il fiorire dell’antisemitismo.

Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne nella classe in cui insegno quest’anno?
Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché essi sanno quel che sta accadendo.
E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del Ghetto di Varsavia del quale abbiamo parlato recentemente? E’ vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo mille. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito “campo di concentramento”) non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari?
Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in otto anni hanno causato dieci morti (tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora). E’ vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?

Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le parole “con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro”.
Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo può divenire un pericolo mortale. L’orrenda carneficina che Israele sta mettendo in scena nella striscia di Gaza, come i bombardamenti della popolazione di Beirut due anni fa, sono segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e può vincere anche questa guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei loro fratelli palestinesi è destinata a far sorgere un nuovo nazismo.
Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e duecento milioni di islamici. E siccome nessuna potenza militare può mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà oggi si scatena l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.

franco berardi, 15/01/2009