Caro direttore Marco Damilano,
mi concedo il “caro” perché, da convinto fan dello Spiegone, per me lei è come uno di famiglia.
Dopo questa premessa, subito al punto: la spropositata intervista a Michela Murgia, ospitata da L’Espresso. Spropositata, oltre che culturalmente immeritata e filosoficamente immotivata, nei contenuti e nella rilevanza che si offre ad un pensiero sostenuto in maniera superficiale.
Il meccanismo è facile da individuare: lanciarne una sempre più grossa che scavalchi nelle dimensioni e nella portata quella precedente. Un congegno mediatico già ben descritto da Benjamin fin dal 1936 nel suo saggio L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, e poi da Guy Debord in La società dello spettacolo (1967). Niente di nuovo: sorprendere con azioni o affermazioni per passare poi, di shock in shock, attraverso un superamento progressivo che orienta sempre il livello dell’attenzione, mediatica e culturale, su sé stessi.
Questa è la tecnica in cui l’operosa Michela Murgia, nessuno glielo nega, è nota. Ottima interprete di ruoli, perfetta sollevatrice di polveri che poi ricoprirà con il polverone successivo. Sostanza? nessuna… solo apparenza, che necessita di un Narciso abnorme capace di spingere l’Ego senza limiti in tutte le direzioni. Una Vanitas incontenibile che porta a rubacchiare, sgraffignare, grattare, carpire, arraffare… appropriarsi impunemente e spudoratamente di concetti e idee che non le appartengono in nessun modo. Fin qui niente di preoccupante: tutti noi abbiamo assunto idee da pensatori che ci hanno preceduto. Io per primo ho enormi debiti con numerose menti del passato, ma con almeno il buon gusto di non spacciarle per pensiero originato dalla “mia brillante intuizione” e, soprattutto, di approfondirle e non indossarle volta per volta a seconda della sbalordita audience.
E passi… avrei potuto anche tacere su questa ennesima appropriazione indebita di un materiale talmente effimero ed etereo come il pensiero da non poter essere in nessun modo difeso se non dal pensiero stesso. Compito arduo, dato che oggi la rapidità dei processi non si sofferma sull’intelligenza o sull’analisi, ma produce soltanto opinione in sintesi talmente ambigue da lasciar intravedere tutto e il suo stesso contrario. E la Murgia in questo è davvero maestra. Nel suo ormai noto stile bisogna riconoscere grandi doti da Sibilla.
Stringere i concetti in sentenze compresse e non argomentate è una tecnica dell’opinionista che poi, davanti ad eventuali opposizioni, spinge verso il battibecco, la battuta, il sarcasmo, la discussione anche fino alla rissa. Tecnica da Talk-show. Le sentenze possono restare nella superficialità più compatta e completa: Ibis, redibis non morieris in bello (andrai, ritornerai non morirai in guerra). Dove sarà la seconda virgola? Dopo ritornerai o dopo non? Basta non metterla e tutto si sistema. Questa l’antica tecnica dell’ambiguità e della superficialità contemporanea.
Chiarisco:
– Ora non sto parlando di antifascismo, una coperta talmente vasta sotto la quale chiunque può trovare accoglienza. È il mio ambito dagli anni ’60 del secolo scorso e i miei percorsi non l’hanno mai nemmeno minimamente smentito. E devo sforzarmi un bel po’ per restarci persino con la ex-collaboratrice di Adinolfi … Benvenuta anche lei, che a spintoni occupa sempre il centro del letto. Io resto al margine della coperta (nonostante il suo tessuto appartenga storicamente molto più a me) e cerco di non farmi sfiorare.
– Non sto parlando di visibilità, condizione dove chi pensa secondo quei beceri paradigmi vorrà subito ricondurmi. Sto defilato. Non ho obiettivi né carriere oltre a quella interiore del percorso del mio pensiero e della scrittura che ne segue. Non vendo niente. Non devo “piazzarmi”. Sto altrove e ci sto bene. Chi mi conosce lo sa. E Michela Murgia mi conosce abbastanza per saperlo.
Dunque perché ora scrivo? Per difendere un concetto contenuto nell’intervista che mi tocca nel profondo, dato che mi riguarda personalmente: quello dell’appartenenza in alternativa al concetto di identità.
Nel 2012 è uscito un mio facile saggio intitolato Geometrie di libertà in cui, attraverso alcuni dialoghi avvenuti nell’arco di 20 anni con giovani intelligenti, analizziamo insieme il rapporto dell’arte e della cultura col sociale. Come agisce il sistema repressivo, quali strumenti utilizza per operare il controllo del pensiero, a cosa serve l’arte, e cose simili…
A questo libretto la Murgia (e non solo lei, ne ho le prove, ma qui non voglio aprire altri files) ha variamente e sfacciatamente attinto senza mai nemmeno citare la fonte.
La prima volta che capitò le dissi personalmente la mia amarezza, e lei, in un dialogo privato inumidito dalle sue lacrime, si scusò come infantilmente fa un bambino che ruba la marmellata. La riparazione apparente avvenne tramite una sua amica che, in un molto marginale convegno di paese, mi chiese di chiarire quei concetti. Lo feci rapidamente e, per non annoiare il pubblico, passai al vero tema dell’incontro. Si chiuse lì con una sua promessa di non ricascarci. Ho il cuore tenero e non sono capace di odio né rancore, però non dimentico mai.
Ora perché insisto? Potrei non rivendicarne la matrice. Continuerei a vivere nel mio felice silenzio, a non dover sopportare il fastidio di mostrarmi, a coltivare la mia difficile condizione quotidiana che riceve un appagamento soltanto dall’inutile dignità che la sostiene.
Perché intervengo pur sapendo che ogni polverone le fa gioco (purché se ne parli…) e continua ad alimentare e amplificare quella sua eccezionale capacità polemica?
Parlo perché vedo quelle mie idee abusate, alleggerite fino alla banalità, diminuite in una piatta mediocrità. Parlo perché le ho pensate e soffro a non difenderle. Parlo per non consentire mai più a nessuno di costruire la propria immagine millantando idee non proprie e riducendole all’inconsistenza. Parlo perché se non lo facessi, vorrebbe dire che quel sistema ha preso anche me.
È il disperato appello della sostanza, perdente nel mondo contemporaneo, perché schiacciata dall’apparenza. Il vero dramma non sta in chi appare e pronuncia, ma nello spazio e l’utenza concessi all’imbonitore senza che si attivi mai una coscienza critica sulle sue strombazzate affermazioni. Panta rei? Oh, no… Non è vero che tutto scorra impunemente, se scorrendo lascia graffi incurabili sulla pelle di altri.
Come si conduce l’operazione? si arraffano le idee di qualcuno non troppo visibile nel sistema mediatico e si confida nel fatto che non reagirà, o che, se lo farà, sarà talmente fragile nei riguardi del consenso da non avere alcuna possibilità di opporsi, di essere visto e creduto. E così si va avanti, con la faccia tosta e l’arroganza che sono parte fondamentale dell’armamentario dello scalatore.
Ora vengo alla fonte: è nell’introduzione – da pag. 13 a pag. 23 – al mio già citato libretto del 2012. Lì si tratta dell’appartenenza (guarda caso, proprio in chiave antifascista!) e più avanti nel libro si parla della patria, concetto che rifiuto nella sua rigidità e che poi risolvo affermando: “Se avessi una patria, questa sarebbe nella mia lingua”, e parlo di lingua madre. Idee che, in un rovesciamento artificioso e funzionale, la Murgia preda abilmente (lo riconosco) e riadatta maldestramente. Ma avesse almeno rispettato i concetti! Forse avrei taciuto.
A prova delle mie affermazioni, pubblico qui l’introduzione (non tutto il libro) e la metto a disposizione di chiunque voglia scaricarla. Se avrete voglia, leggetela, e, comunque, lasciatemi in pace. Non voglio sostituirmi a Michela nella vanitosa scalata all’apparenza. Lei però eviti ogni rumore nelle mie vicinanze, mi lasci pensare e scrivere in pace come ha fatto con me negli ultimi anni. Continui a stendere quel silenzio che nei miei confronti è l’unica arma che possiede. E, poiché si fa chiamare scrittrice, che intanto fornisca prova di esserlo, ma ricordando sempre che nessuno è autorizzato a fregiarsi di alcun titolo se non gli sarà conferito dall’ambito di appartenenza. E che dovrà continuamente meritarlo per non essere destituita dal carico di portarlo. Non venda idee come quel famoso bottegaio di libri che riuscì a costruire un enorme business senza averne mai letto uno. Questo signore era noto per scorrere rapidamente solo le quarte di copertina. Ma ne vendeva tanti e costruì un impero! Libri o prosciutti era lo stesso. Bastava non approfondire.
Suggerisco un’ultima boutade:
Michela propone il termine Matria in sostituzione di Patria. E lo fa senza alcun fondamento filologico o etimologico. Se si dovesse ragionare come lei, gli abitanti della provincia di Nuoro potrebbero cantare inni alla Nutria. Spero che il localismo non porti mai a questo.
Un consiglio: usi il termine Filtria. Indica meglio la nostra vera posizione su ogni terra, che è destinata ai nostri figli – filii – ed appartiene a loro prima che alle madri o ai padri.
Orsù, leviamo insieme inni alla Filtria, capace di estrarci dalle pastoie di una definizione morale ed aprirci a un sguardo etico sul mondo.