Umbrialibri 2007
da LA NUOVA SARDEGNA del 09.01.2008
un intervento dello scrittore Alberto Capitta
In questo contesto di solare convivenza è giunta come un segnale di catastrofe la notizia dello smantellamento delle basi e dell’arsenale militare. Il tutto poco più di un anno fa. L’isola è piombata di colpo in un grave stato depressivo, un clima di privazione simile alla vedovanza. Dunque che fare? Come risarcire la popolazione per un simile torto? Si è pensato di tutto, compresa una deroga alla ferrea e giusta e sacrosanta legge salvacoste. Per costruire alberghi. Tanti. I progetti sono fioccati a decine giacché si è fiutato il momento di debolezza della Regione posta quasi nella condizione di rimediare a un danno fatto. Alberghi e non solo, sull’isola. Alla poveretta si è pensato anche come sede della Coppa America, per nuove mire dell’Aga Khan, per imprese turistiche inimmaginabili solo qualche anno fa e, naturalmente, per il G8. E’ come se una donna vittima di uno stupro chiedesse soccorso e per somma disgrazia finisse tra le braccia di un nuovo branco. Tutti a fare la fila. A insinuare che sotto sotto provi piacere. No, nessun piacere a ritrovarsi violata a pochi metri dal mare dove sono destinati a crescerle addosso i nuovi insediamenti. Nessun piacere a sentirsi calpestata dai potenti della terra così come è stato ormai deciso.
La scelta del G8 è grottesca. Perché G8 in Italia è sinonimo di infamia e il fotogramma simbolo è il corpo di un povero ragazzo investito e rinvestito dalle ruote della jeep. Perché il G8 per l’Italia è piazza Alimonda e la scuola Diaz laddove la polizia si è spogliata della sua supposta neutralità per offrire armi e divise a una folla di estremisti di destra, scrivendo così una fra le più deplorevoli pagine della storia della Repubblica. Tutto questo si vuole ora trasferire in Sardegna. Con tutto il grigiore del suo peso simbolico. Naturalmente ben pochi hanno da obiettare qualcosa. E tra quei pochi i sindaci che si oppongono per questioni di ordine pubblico, per paura dello sfascio, non certo per un imbarazzo della coscienza. Sotto il profilo etico è tutto a posto e si schiacciano pisolini tranquilli. D’altronde ciò che importa sono le luci della ribalta e per queste non solo i maddalenini ma i sardi in genere hanno da sempre un debole. Vittime di un atavico complesso di inferiorità i sardi cedono a un senso perverso della gratificazione ogni qual volta capiti loro di godere della considerazione del mondo posto oltre i loro confini. Sulla base di questa devianza si ostenta orgoglio per qualsiasi prodotto sardo in grado di fare parlare di sé fuori dall’isola e si getta in un unico spaventoso calderone miss, cantanti, scrittori, formaggi, veline, sportivi e via dicendo. Senza un filtro. Come sarebbe stato dunque possibile attendersi un diverso atteggiamento all’annuncio del G8 in Sardegna? Tanto a chi importa dei simboli e dell’etica? Oramai la coerenza politica è un bene superfluo e per molti non è più neanche un bene.
Tutto ciò sotto la promozione di un governo nazionale e uno regionale di sinistra. E allora mi domando cosa significhi oggi definirsi democratico o democratico di sinistra o semplicemente di sinistra. E il mio riferimento non va solo alla classe politica ma a tutti quelli che abbiano a cuore un filo di giustizia sociale e conservino una parvenza di memoria civile, perché si interroghino sul silenzio seguito alla scelta dell’isola quale sede dell’evento. Sul perché nessuno abbia provato ad indignarsi, sul perché di tutto questo guazzabuglio di contraddizioni, di incoerenza politica, di disordine mentale. E mi domando a che cosa servano tutti quanti gli appelli e i convegni intorno al Partito democratico se non si pone neanche in discussione una mostruosità di tali dimensioni quale è il G8 che si tiene a casa nostra. Il problema, o il dramma, è che davanti alla sirena dei finanziamenti tutti rimangono disarmati. Ma disarmante è l’intero spettacolo. Uno spettacolo davanti al quale credo che qualsiasi discorso intorno all’identità sarda resti polverizzato e vada ridiscussa seriamente l’opportunità (e la necessità) di un tale dibattito.
Né identità, né radici, né memoria quindi. Solo tristezza. Per lo sfascio culturale, per lo stato mentale collettivo, per questo pesante prolungato silenzio.